In Divenire
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Scrivere di sé è sempre strano, e ancor più difficile è scrivere di qualcosa che ti appartiene profondamente. Eppure è necessario, perché aiuta a comprendere meglio una produzione artistica.
Mi sento a cavallo tra due modi di essere: quella parte di me che non vorrebbe mai spiegare un’opera, e l’altra che, se ne ha l’occasione, la racconta come fosse una pagina di un libro. Rimane comunque la sensazione che ciò che hai in testa, i tuoi pensieri e le tue riflessioni, una volta scritti, perdano parte del loro valore, mentre ciò che li rappresenta resta per sempre.
Oggi ho trentun anni. Quando ho iniziato, ne avevo diciotto e venivo da un periodo molto difficile: ero insicura sul senso, ma decisa a cambiare la mia vita per sempre. Approcciarmi all’idea stessa di diventare un’artista mi sembrava allora qualcosa di irrealistico, come cominciare un cammino sapendo già che si dissolverà. Era troppo invitante per non provarci. Adesso, dopo esperienza e terapia, riesco a vedere meglio la bambina che ero e il perché di certe scelte.
Sono figlia degli anni ’90: un’infanzia fatta di esperienze continue, di contatto con la natura, la terra, il potersi sporcare, ammalarsi, sperimentare, relazionarsi continuamente e avere tempo vero, senza distrazioni e senza schermi alienanti. Ricordo il silenzio, le giornate in una casa vicina a campi immensi di erba fiorita.
Poi, dopo pochi anni, noi bambini di quel periodo abbiamo cambiato completamente abitudini: abbiamo imparato da soli la tecnologia, l’abbiamo sperimentata, voluta e accolta, fino a farla diventare parte di noi.
La mia intenzione non è denigrare la tecnologia: credo sia una versione del nostro divenire. L’aspetto peculiare, però, è la conseguenza. Oggi, a trent’anni, sento che questo ha portato in me — e forse in tutta la mia generazione — una distopia profonda, sempre più evidente col tempo: vivo tra due sensibilità e due epoche che quasi si scontrano. Una è in divenire, l’altra è scomparsa per tutti, ma decisa a condizionarmi, trascinando con sé voglie e abitudini del passato. La malinconia di quel modo di vivere si sente ancora e credo che a diciotto anni sia stato proprio questo sentimento, anche se inconsapevole, a spingermi verso la scultura e la ceramica.
Ho scelto di praticare una delle arti più antiche: la modellazione della terra. Questa pratica mi collega a tutto. Il processo della materia segue le stesse leggi del mondo: ciclicità, fasi lunari, ritmi stagionali. Tutto è dipendente, tutto è vivo. Non lo sapevo allora, ma ci è voluto poco per percepirlo. Non è stato un atto di conoscenza, ma una consapevolezza entrata senza ragionamento, come se fosse sempre stata lì.
Tornando a quella scelta, mi accorgo di quanto sia la chiave della me di oggi. Da ragazza, guardavo gli artisti che studiavo come figure quasi divine, semidei dai poteri inarrivabili, e io, piccola e affamata di vita, accoglievo ogni esperienza sensoriale possibile senza sapere bene cosa fosse davvero un atto artistico.
Forse per questo allora mi sembrava un sogno impraticabile: non avevo idea di cosa significasse ‘produrre’ un’opera, e non sapevo che il valore dell’arte nasce solo dal tempo, dall’esperienza e dall’eterogeneità delle personalità che la vivono e la interpretano.
Nelle mie sculture è questo che accade: le mani si connettono alla parte più intima di me, cercano di chiarirla, darle forma, manifestarla. È un atto profondamente salutare.
La scultura è figlia di me: caotica, piena, informe, sempre sincera, non può essere altro. La ceramica, invece, rappresenta la mia parte ordinata: quella che ama la ritualità, la ciclicità, e che si dedica con rispetto alle leggi naturali che mi regolano e mi condizionano.
ALESSANDRA MERENDA
Fotografia di : Roberta Rossi Scala